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FOTO italia puzzledi Serena Moriondo

Quarantuno anni fa, i Presidenti di Regione decisero di dar vita alla Conferenza dei Presidenti delle Regioni e delle Province autonome, consapevoli che solo attraverso una stretta collaborazione e condivisione si potessero rappresentare al meglio nei confronti del Governo e del Parlamento le “ragioni” delle autonomie territoriali. Ad inizio di dicembre scorso, è stato sottoscritto, davanti al Presidente della Repubblica, il rinnovo del Patto di collaborazione tra tutte le Regioni secondo quando previsto dall’articolo 117 ottavo comma della Costituzione.

L’articolo 5 della Costituzione, infatti, include nei principi fondamentali tanto l’unità e l’indivisibilità della Repubblica, quanto il riconoscimento e la promozione delle Autonomie locali.

E per molto tempo il dibattito politico si è sviluppato tra “autonomia” e “centralismo” ma, ora, il dibattito sul regionalismo differenziato sembra aver ripreso il suo cammino con nuova lena dopo la fase acuta della pandemia e l'elezione del nuovo Governo Meloni. 

"L’autonomia regionale differenziata - come sostiene Gianfranco Viesti, docente di Economia applicata alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Bari  - è un importante progetto politico di cambiamento dell’Italia, con un estesissimo e asimmetrico decentramento di competenze verso le regioni, a cominciare da scuola, sanità, infrastrutture, e con risvolti economici tutti da verificare, legati al desiderio di alcune regioni di ottenere molte più risorse.

In sostanza, le criticità e le incognite che presenta questo percorso avrebbero dovuto suggerirne un sostanziale ripensamento dato che il rischio che si assista ad una “bulimia di autonomia" (Paolo Maci “Regionalismo differenziato: tra bulimia di autonomia e rischi di ingovernabilità” Federalismi.it, 27.07.2022) da parte delle regioni ordinarie potrebbe portare, senza adeguati correttivi, all’ingovernabilità del sistema Paese.

Quello che sorprende, tuttavia, è la circostanza che questo percorso (sull'autonomia differenziata) si appresti a riprendere il cammino come se nulla fosse, come se le criticità nella governance delle istituzioni emerse, in particolare durante la pandemia, non ci siano state.

Diversamente da quanto hanno percepito i cittadini, i lavoratori e le lavoratrici nelle strutture sanitarie e assistenziali, sui mezzi pubblici, nella grande distribuzione, ecc.,  le stesse imprese e i sindacati, le associazioni di volontariato in quei drammatici momenti, l’esperienza della pandemia - secondo il presidente della Conferenza delle Regioni, Massimiliano Fedriga (Presidente della Giunta di centro destra del Friuli V.Giulia) - “ha significato un momento di crescita” nel quale è stata superata “ogni logica di appartenenza politica" lavorando con unità e condivisione per consentire la ripresa delle attività economiche, per un ritorno alla vita ordinaria, anche attraverso la campagna vaccinale (Fonte: Regioni.it).

Evidentemente abbiamo vissuto su due pianeti diversi: difficile non ricordare dall’inizio dell’epidemia i 183.851 decessi su oltre 25 milioni di contagiati; i lavoratori stremati nelle corsie degli ospedali per carenza di personale e terapie intensive; gli scandali legati agli approvvigionamenti e agli ausili sanitari e le liti nei talk show televisivi, arrivati a coinvolgere anche stimati virologi.

Comprendere a chi giova oggi l’autonomia differenziata nelle declinazioni concrete che sembrano prevalere potrebbe significare dare al tema che ci occupa la giusta chiave di lettura.

E non si può affrontare questo aspetto del problema senza partire dalla considerazione che l’introduzione del terzo comma dell’art. 116 Cost nella riforma del titolo V è stata una forzatura, dettata dalla convinzione maturata dalle forze politiche che reggevano la maggioranza del Governo Prodi I di poter disinnescare le pulsioni federaliste o addirittura secessioniste che, alla fine degli anni novanta, montavano sull’onda dell’avanzata leghista nelle regioni del Nord.

Oggi, più che mai, mentre la riforma è nelle mani del ministro Calderoli della Lega, sono in molti a sostenere che senza una previa, adeguata ponderazione dei possibili effetti di sistema fu miopia politica. E mentre la Lega ha modificato il suo orizzonte, rinunciando almeno in parte alla sua identità territoriale, ponendosi obiettivi, almeno formalmente, compatibili con la rappresentanza delle istanze provenienti da tutto il Paese, Presidenti di regioni in rappresentanza dell'opposizione di sinistra stanno perseguendo la strada del regionalismo con altrettanta determinazione e con la medesima superficialità.

Quel che è necessario ricordare, infatti, è che non si tratta solo di una iniziativa leghista: esponenti apicali del Partito democratico hanno svolto un ruolo fondamentale per sostenerla. La proposta di cui oggi si discute è figlia tanto della Lega quanto del Pd, tanto di Luca Zaia quanto di Stefano Bonaccini. Un tema che dovrebbe essere cruciale per l’attuale dibattito precongressuale fra i democratici, senza però che se ne avvertano i segnali.

La regione Emilia Romagna ha marcato però alcune differenze. In primo luogo, non vi è stato alcun referendum consultivo come è avvenuto in Veneto o in Lombardia. Poi, le richieste, pur estesissime (15 materie), non includevano la regionalizzazione degli insegnanti e della scuola pubblica. Infine, il Presidente Bonaccini ha sempre sostenuto di “non chiedere un euro in più allo Stato”, anche se su questo appare lecito nutrire qualche dubbio.

Tutto ciò detto – secondo il prof.Viesti - resta il fatto che si è trattato di un’iniziativa politica di grande rilievo. Per decenni l’Emilia è stata laboratorio teorico e attuativo del regionalismo italiano. La sua classe politica ha progettato e costruito un’organizzazione dei pubblici poteri ben bilanciata fra centro e periferie; con una capacità di programmazione e di realizzazione che ha fornito esempi da imitare ai governi regionali e locali di tutta Italia. Questa volta ha progettato un cambiamento per il suo territorio e non per l’intero Paese. L’Emilia non ha chiesto di rivedere l’articolo 117 della Costituzione per tutte le regioni, ma di attuare il 116 per se stessa.”

Non si può negare che l’impianto costituzionale relativo alla distribuzione delle funzioni amministrative di cui all’ art. 118 della Costituzione prevede, come è noto, che la legge statale e quella regionale, nell’ambito delle rispettive competenze, applichino i principi di sussidiarietà e adeguatezza unitamente a quello di differenziazione. Il primo elemento di concretizzazione della differenziazione “della funzione” si trova proprio nella possibilità riconosciuta dalla Costituzione al legislatore di poter conferire una determinata funzione non a tutti gli enti territoriali appartenenti ad una determinata categoria (ad esempio differenziando Comuni grandi e Comuni di piccole dimensioni demografiche oppure tra Comuni collocati in contesti geografici diversi).

Anzi, è importante essere consapevoli che con riferimento a quest’ultimo principio, la “differenziazione” della allocazione delle funzioni amministrative tra i diversi livelli di governo e tra gli enti territoriali appartenenti a ciascuna categoria omogenea (Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni) assume una specifica rilevanza in altre previsioni costituzionali e in particolare laddove, oltre il caso dell’art. 116 Cost. in merito al c.d. “regionalismo differenziato", si consente un regime differenziato per la disciplina di Roma in quanto Capitale della Repubblica (art. 114, comma 3, Cost.) e nel caso in cui è riconosciuta alle Regioni la possibilità di esercitare congiuntamente funzioni (amministrative) ex art. 117 , comma 8,Cost..

Chiedersi dunque, come hanno fatto autorevoli esperti, a chi giova, oggi, l’autonomia differenziata, quindi, è un quesito non da poco.

Certamente non giova a soddisfare la richiesta di marcare in maniera più incisiva l’identità di un territorio. Come ci ricorda Paolo Maci: “Le ragioni 'forti' ” che in quest’ottica giustificarono la costituzione delle regioni a statuto speciale di certo non possono essere ritrovate negli altri territori della Repubblica né d’altra parte sono utilizzate dalle regioni che hanno avanzato la richiesta di maggiore autonomia a sostegno della stessa.

Anche la pretesa legata ad una asserita migliore gestione delle risorse pubbliche che le Regioni più “virtuose” avrebbero potuto garantire rispetto allo Stato centrale è venuta meno, atteso che i limiti della capacità delle Regioni di spendere “meglio” si è infranta di fronte alla realtà (piani di rientro, dissesti finanziari, tagli al personale e ai servizi, dalla sanità ai trasporti).

Ed allora, non può che concludersi che la richiesta di maggiore autonomia da parte delle Regioni non possa trovare alcuna giustificazione se non nella possibilità, da parte delle istituzioni regionali, ognuna per il suo ruolo, di gestire un più vasto ambito di materie e di funzioni con meno vincoli rispetto alla situazione attuale e di disporre – anche per questo - di più risorse. E ciò è vero soprattutto per le Regioni con il PIL più elevato e quindi con una maggiore capacità fiscale per abitante quali sono, per l’appunto, quelle Regioni che hanno dato un maggiore impulso alla richiesta di un grado maggiore di autonomia.

Locandina Iniziativa CGIL 20 gennaioAd affrontare il tema, oggi, la CGIL in un Convegno dal titolo "Tra Autonomia differenziata e Presidenzialismo". La finalità, secondo la Segreteria Nazionale,  è la seguente: “Non solo vogliamo rilanciare la posizione della nostra organizzazione rispetto ai temi che sono al centro anche dell'attualità e del dibattito politico e che riguardano in particolar modo gli assetti costituzionali e istituzionali. Ma, siccome riteniamo che la partecipazione sia alimento della democrazia, pensiamo che su temi così rilevanti vada aperta una discussione la più ampia e coinvolgente possibile. Il rischio che vediamo, infatti, è che il combinato disposto di autonomia e presidenzialismo prefiguri addirittura un superamento della Carta costituzionale del 48”.

Le conclusioni della CGIL sono chiare: "Presidenzialismo e autonomia sono due facce della stessa idea di Paese e di democrazia che riduce gli spazi di partecipazione a una sorta di plebiscitarismo. Dalla crisi di rappresentanza crediamo, invece, si debba uscire rafforzando di strumenti e i luoghi di partecipazione. Insomma si sta discutendo di quale idea di Paese si ha, e noi pensiamo sia quella delineata dai principi fondamentali e dall'ordinamento della Costituzione che lascia al presidente della Repubblica il ruolo di figura terza e di garanzia, tanto più in questa situazione di crisi, è fondamentale”.

Link: Programma Iniziativa Cgil 20 gennaio 2023