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Foto Sateriale recentedi Alessandro Mauriello

Nel deserto di dibattito pubblico sul ruolo dei corpi intermedi e sindacali, sul ruolo della cittadinanza sociale che si trasforma in impegno civile e' in uscita un libro importante dal titolo "Profondo Lago".  Ne parliamo con l’autore Gaetano Sateriale, più vite in una: amministratore locale, dirigente sindacale, presidente della Associazione Nuove Ri-Generazioni e, ora, coordinatore di Emilia Romagna Sostenibile e scrittore. 

Come mai, Gaetano, hai pensato fosse necessario scrivere un libro che parla di lavoro?

Perché ne sento spesso parlare in maniera astratta, se non a sproposito, anche a sinistra: chi deve fare le politiche per il lavoro non conosce il lavoro da vicino. Allora ho pensato fosse utile raccontare il lavoro “in carne e ossa”, come diceva Bruno Trentin. Dove si svolge davvero, come, con le sue diverse competenze. Il lavoro non è l’effetto debole delle tante politiche di aiuto alle imprese. Il lavoro è stato motore di sviluppo e dovrà esserlo ancora, se vogliamo davvero andare verso un futuro più sostenibile. E questo vale anche per il lavoro sindacale che non può limitarsi a ridurre i disagi e le ingiustizie se vuole porre di nuovo il lavoro al centro di una crescita meno diseguale e più rispettosa dell’ambiente. Io mi sono laureato con una tesi sul mercato del lavoro con il Prof Paolo Leon nel 1975 e già allora si dicevano le banalità che sentiamo ancora oggi: che non c’è disoccupazione se i giovani non accettano il lavoro che gli viene proposto e, addirittura, qualcuno sosteneva che ci sono troppe competenze nell’offerta di lavoro ed è per questo che le imprese non assumono… Pensa te.

Il libro racconta anche del tuo impegno sindacale. Com’è accaduto che un giovane neolaureato in Scienze Politiche sia diventato un dirigente sindacale dei chimici?

In un modo che penso sia stato abbastanza frequente per la mia generazione, quella del ’68 per intenderci. La militanza studentesca, la scoperta delle rivendicazioni operaie, la conoscenza, seppure polemica, dei sindacalisti veri, l’occupazione delle fabbriche in crisi, gli scioperi per i contratti. Noi andavamo a raccogliere fondi di solidarietà la sera, casa per casa, a sostegno di quelli che scioperavano e ad aiutare i picchetti la mattina presto, prima di andare a scuola, distribuendo migliaia di volantini tirati col ciclostile il pomeriggio prima nelle sedi dei gruppi “extraparlamentari”, come si diceva allora. Penso che oggi nessuno avrebbe la boria di chiamare così il movimento delle “Sardine”… Il rapporto con i Consigli di fabbrica e i Consigli unitari di zona, inizialmente dialettici ma sempre più spesso collaborativi (per noi quei luoghi erano l’unica espressione della cultura operaia e della volontà di riscatto del lavoro) non furono senza effetti. Questa fu una specificità ferrarese dovuta soprattutto alla Cgil e alla Cisl. Dopo qualche anno di conoscenza e collaborazione informale, ci chiesero se eravamo interessati a formalizzare un rapporto con il sindacato. In particolare, per quel che mi riguarda, fu il Segretario della Camera del Lavoro (Gabriele Zappaterra) a chiedermi se ero interessato a costituire (assieme ai miei compagni di esperienza politica) l’Ufficio Studi della Cgil. Io accettai e molti di noi entrarono nel sindacato divenendo sindacalisti attraverso quella prima bellissima esperienza. La Cgil di Ferrara, forte della capacità storica di rappresentare nel tempo sia le migliaia di braccianti del dopoguerra che gli operai degli anni ’60, chiedeva a noi giovani universitari “extraparlamentari” di aiutarli a studiare l’economia e la società ferrarese. Anche questo oggi avrebbe, temo, dell’incredibile… Oggi i giovani finiscono più spesso agli sportelli Inca e Caf delle Camere del Lavoro, piuttosto che non al terzo piano, come noi, accanto all’ufficio del Segretario Generale. Da lì, con l’aiuto delle categorie, iniziammo a fare ricerche con questionari e numeri sui diversi settori produttivi, la dimensione delle imprese (diversa da quella del resto dell’Emilia). Spesso con posizioni più moderate noi “ex estremisti” che non i dirigenti sindacali con cui ci confrontavamo. Ricordo ad esempio che sul lavoro a domicilio, grande tabù del sindacato dei tessili, toccava a noi tentar di convincere quei compagni che se una signora ultrasessantenne è disposta a lavorare da casa sua per un’impresa tessile non vuol dire che sia disponibile ad andare a lavorare in quell’impresa anche se aprisse una filiale nel suo stesso paese. E quindi che quel lavoro va tutelato contrattualmente e legalmente ma non abolito. Qualche affinità con certi atteggiamenti di maniera sul precariato di oggi? Sì, lo penso anche io.

Ma il tuo libro parla soprattutto di chimici…

È il seguito di quella storia collettiva. Nel 1980 La Cgil mi chiese se volevo fare il sindacalista sul serio, in una categoria. Io risposi di sì e che avrei preferito i chimici. Così divenni segretario provinciale dei chimici proprio l’anno in cui in Italia iniziava un lungo e difficile percorso di ristrutturazione e riduzione occupazionale negli stabilimenti Montedison e Eni prima di tutto. A Ferrara il petrolchimico Montedison (il “fabbricone”) era una delle realtà industriali e sindacali più ricche e complesse: con una Cgil forte a rappresentare soprattutto gli operai, la Cisl che rappresentava i tecnici e la Uil gli impiegati. Si potrebbe riassumere tutta la storia dicendo che quando sono arrivato io c’erano 4000 dipendenti diretti (più quelli degli appalti) e quando me ne sono andato, 5 anni dopo, ne erano rimasti 2000. Ma la vicenda fu più complessa sia localmente che nazionalmente. La petrolchimica si stava riorganizzando per aree produttive integrate a livello regionale (o interregionale), si riduceva il numero degli impianti doppi e si espandevano le dimensioni di quelli che restavano, crescevano le economie di scala e calava il lavoro necessario. Le grandi aziende chimiche chiedevano aiuti pubblici per ristrutturarsi, noi fungevamo con i nostri contratti nazionali e di stabilimento da garanti. Se il sindacato lo chiede vuol dire che è necessario un Piano Nazionale della chimica. Ma la cosa vera che il mio libro vuole descrivere è come, malgrado le tempeste, il tessuto sindacale sia riuscito a sopravvivere e rafforzarsi unitariamente: a contare di più e non di meno in quelle vicende, come accadde in altri settori e altre aree del paese. Lo ha fatto perché ha sempre voluto combinare le diverse esperienze di lavoro e le diverse culture sindacali esistenti. Da noi non ci fu nessuna manifestazione né di 40.000 né di 40 quadri perché i quadri stavano con la Fulc fin dall’inizio e anche molti dirigenti. Eravamo contro le decisioni, a volte improvvisate, dei vertici di Milano, ma Ferrara era unita e compatta. Per questo abbiamo potuto fare lotte dure e prolungate. Per questo, malgrado i costi occupazionali, oggi possiamo dire di averla vinta quella battaglia: di aver aiutato l’innovazione degli impianti, del lavoro e del sindacato. Anni dopo mi capitò un’altra vicenda simile, mi viene in mente, questa volta da membro della segreteria nazionale Fiom, altrettanto impegnativa e ricca. Una sera Fausto Vigevani che era il segretario generale mi chiese se potevo andare io al suo posto ad un incontro con Finmeccanica che lui quella sera aveva un altro impegno. Quell’incontro durò 3 anni di trattative durissime sulla ristrutturazione degli stabilimenti del Gruppo Alenia: da Pomigliano a Torino. Un’altra di quelle esperienze che ti formano per sempre.

Nel tuo libro sono richiamate alcune figure importanti del sindacato degli anni 80. Quali hanno lasciato maggior segno.

In qualche modo, nella ristrutturazione del settore chimico fu coinvolto tutto il sindacato di allora. Personalmente, grazie a quelle vicende, conobbi da vicino personaggi come Fausto Vigevani, Sergio Cofferati, Gastone Sclavi, Sergio Garavini, Giuliano Cazzola che avevano insieme grande esperienza e nello stesso tempo grande capacità di ascoltare e dar peso alle aree periferiche del settore e della categoria (come eravamo noi). Furono tutte conoscenze di grande insegnamento per me che allora ero appena trentenne. La cosa che mi colpì di più fu quando mi accorsi che oltre a essere autorevoli nel sindacato quelle stesse persone erano molto autorevoli nei confronti delle controparti e degli interlocutori politici, veri riferimenti nel sistema delle “relazioni sindacali”, come si dice. Fu anche quello un insegnamento che cercai di far mio. Grazie a loro non siamo stati abbandonati nei nostri territori a un ruolo di mera opposizione: loro ci aiutarono a sostenere la nostra strategia di risanamento e innovazione. Una strategia attiva e non subita, come spesso succedeva. Accanto ai dirigenti nazionali, per me che ero appena arrivato tra i chimici ferraresi, anche decine di delegati (Cgil Cisl e Uil) e sindacalisti che mi insegnarono il mestiere. Nel libro ricordo, fra i tanti, un delegato delle manutenzioni meccaniche che una notte difficilissima in cui io stavo seduto di fronte all’azienda senza sapere più come continuare mi si avvicinò e mi disse: “Bravo così, la Cgil non si alza mai dal tavolo di trattativa”. Un vero maestro, non solo per me, fu Pino Foschi (più volte richiamato nel libro), coordinatore degli impianti pilota del Centro Ricerche “Giulio Natta” del nostro Petrolchimico e dirigente della Cisl.

Tu hai amministrato una importante città come Ferrara. Il Sindacato cosa ha significato per il suo territorio? E la differenza tra il ruolo sindacale e di amministrazione locale qual è?

Il sindacato in Emilia Romagna è da sempre sia un forte rappresentante del lavoro dipendente, sia un interlocutore autorevole delle istituzioni locali e di quella regionale. Non è un caso che nel 2015 è stato firmato In Emilia (unica Regione in Italia) un “Piano per il lavoro” e nel 2019 si è stipulato il “Patto per il lavoro e il clima”. Negli anni 80 c’era un rapporto molto stretto tra sindacati e partiti che amministravano Comuni, Province e Regioni e spesso si litigava. Perché loro, i partiti, erano anche garanti dell’ordine pubblico e non gli piaceva per niente che noi (come accadde) decidessimo di occupare la Stazione ferroviaria contro il secondo pacchetto di “esuberi”. Per me fu in quegli anni che saltò la famosa “cinghia di COPERTINA Libro 2422 9 Profondo lago SATERIALE cop2trasmissione” tra politica e sindacato. Il sindacato, per fortuna, da noi non ha mai smesso di rappresentare i lavoratori anche quando non bastava più sventolare le vecchie bandiere rosse per ottenere dei risultati. Sul ruolo da sindaco ho scritto un libro (“Mente Locale”, Bompiani 2011) in cui cerco di descrivere la complessità di quell’esperienza, se uno la vuol vivere tutta: per 10 anni sei la punta del parafulmine di tutto quanto, specie di negativo, accade in città. È sempre colpa tua: anche se nevica alle 4 di notte e alle 6 le strade non sono già tutte perfettamente pulite… Per contro, dopo un’esperienza così non hai più paura di nulla, punto. Senza eccezioni. Ho sempre avuto buoni rapporti con i sindacati confederali e i sindacati delle categorie industriali: con loro abbiamo scritto diversi protocolli per lo sviluppo e il lavoro i primi anni 2000. Confesso che non mi sono mai trovato bene nel rapporto con i sindacati della Pubblica Amministrazione, troppo corporativi per i miei gusti, e li ho sempre lasciati all’assessore al personale. Sulle competenze tra i due ruoli (sindaco e sindacalista) mi limito a due sole osservazioni. Essere stato sindacalista aiuta molto un sindaco a trovare più facilmente il punto di mediazione fra le diverse richieste che gli giungono, spesso antitetiche fra loro. Se metti tutti i vari soggetti sociali attorno a un tavolo (artigiani, commercianti, imprese, sindacati, oppure i diversi quartieri e le loro associazioni) dopo 3 minuti hai intuito quale può essere il punto di caduta per fare un accordo, quasi sempre diverso dalle cose che si sono dette. Ma anche il sindaco può aiutare il sindacalista. Soprattutto nel ricordargli che il “bene comune” è l’obiettivo da raggiungere, non il bene di una parte o un bene che sopraffà gli altri. E che il “bene comune” va costruito come un “comune multiplo” più ampio delle richieste che gli sono state fatte. Questo forse lo sforzo quotidiano più faticoso ma anche più bello dell’esperienza da sindaco.

* nella foto Gaetano Sateriale