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FOTO MASSIMO SERAFINIdi Massimo Serafini, Task Force Natura e Lavoro

Al di là delle critiche profonde che da sempre ho rivolto a chi ha amministrato e governa ora la regione, sono nato e cresciuto in quelle terre e vedere pianure sommerse d’acqua e colline che separano la Romagna dalla Toscana ferite da frane e smottamenti, mi procura un senso di smarrimento che scoraggia la voglia di polemizzare e ribadire che il disastro era da tempo annunciato. Ancora di più mi struggono gli sguardi dei miei conterranei, i pochi che riescono a dire due parole in televisione, pieni di disperazione per la paura di dover ricominciare da zero per ritrovare quella qualità della vita che avevano raggiunto e che forse è proprio la stessa da ridiscutere per i tanti aspetti di insostenibilità che hanno portato al disastro. Forse ascoltare di più noi ambientalisti, quelli che si ispirano all’ambientalismo scientifico, avrebbe se non evitato, ridotto le dimensioni della catastrofe.

Sono consapevole che dirlo ora ha poco senso, ma ne ha tanto se si pensa al futuro, a come ricostruire la nostra terra. Che vuol dire che il disastro era annunciato? Per capirlo basta analizzare con spirito critico la gestione delle terre e delle acque fatta da chi amministra la regione e i comuni, la loro scelta consapevole di ignorare il cambiamento climatico. Negare nei fatti di decidere misure per mitigarne la corsa o almeno per adattarsi ai cambiamenti già consolidati e ormai irreversibili. Una sottovalutazione della tempesta che si stava materializzando per paura che le trasformazioni necessarie a prevenirla facessero perdere consensi e, assai più colpevolmente, per non scomodare interessi potenti.

Non appaga quindi la mia coscienza salire su un piedistallo e ripetere “l’avevo detto, l’avevamo detto”. Al contrario mi riempie di rabbia non essere riuscito a convincere chi ha il dovere e il potere di decidere a cambiare rotta, a immaginare quel modello di sviluppo necessario per far vivere bene la collettività prevenendo però i rischi a cui ciò che si decide la espone.

Il tema ora è il che fare, è decidere la direzione di marcia che si vuole dare alla ricostruzione. Ci si apra dunque a un confronto vero che non escluda nessuna forza, nessuna cultura.

La FILLEA e lo SPI, gli edili e i pensionati della CGIL che da tempo pianificano e lavorano a una proposta di rigenerazione urbana, giustamente ora fra gli obiettivi dei loro progetti pongono la sicurezza delle persone che vivono nei luoghi da rigenerare, pensano a come dotare i propri quartieri dei servizi necessari e anche a come difenderli dagli eventi estremi che ormai accompagnano la nostra quotidianità.

Il primo punto che vorrei proporre alla discussione è uscire dalla logica emergenziale. Lo si deve fare in due sensi. In primo luogo smettendo di pensare a ciò che è successo come ad un evento straordinario, quasi irripetibile, per cui basta trovare le risorse per risarcire i danni e ricostruire tutto esattamente come era prima.

La seconda questione, conseguente alla prima, è a chi affidare la ricostruzione: puntare a un commissario, chiunque esso sia, o puntare sugli strumenti che le leggi ci offrono, in questo caso sulle autorità di bacino che secondo la legge 183 hanno il duplice compito di difendere la popolazione dalle acque e contemporaneamente garantire la qualità di quelle acque, l’uso che se ne fa, a chi concederle.

Su queste questioni va aperto un confronto vero, smettendo di mettere la testa sotto la sabbia, ricercando responsabilità ridicole, tutte ovviamente scaricate sul movimento ambientalista per aver difeso le nutrie, essersi opposti alla cementificazione degli argini o alle casse di espansione e chissà che altro.

Proviamo dunque a riportare il confronto su binari di serietà. Piogge eccezionali ed imprevedibili? Giusto dire che ha piovuto tanto, sbagliato sostenere che era impossibile prevederlo. La scienza ci aveva avvertito che senza significative riduzioni delle emissioni climalteranti l’intero pianeta sarebbe stato esposto ad eventi estremi sempre più frequenti. L’Italia è un paese che si sta tropicalizzando e quindi dovremo imparare a convivere con lunghi periodi di siccità seguiti da precipitazioni improvvise e concentrate come quelle che si sono abbattute sull’Emilia Romagna. Non a caso le chiamiamo bombe d’acqua per significare che in pochi giorni cade la pioggia che prima cadeva in molti mesi. È evidente che il bacino scolante che le riceve non è in grado di smaltirle e forse ciò che dovrebbe colpire è che in questo paese qualsiasi pioggia, normale o eccezionale che sia, provoca sempre il massimo dei danni. La ricostruzione che va progettata deve dunque misurarsi per essere efficace con queste piogge e pianificare la difesa dalle acque a questo livello di rischio. Non lo dice solo la scienza, ma la realtà: la Romagna è solo l’ultima delle tragedie che hanno colpito il paese: pochi mesi prima le acque e le frane avevano travolto le Marche, inghiottito un pezzo di Ischia, dissolto il ghiacciaio della Marmolada.

Altrettanto controversa è la scelta su quale figura istituzionale deve organizzare e gestire la ricostruzione.

Scegliere un commissario vuol dire puntare a una ricostruzione centralizzata che vuole rifare tutto com’era prima. Rendere invece protagonisti della rinascita dei territori colpiti i decisori che su quelle terre vivono e decidono che uso ne va fatto. La partecipazione è condizione decisiva. Governare i fiumi che convogliano verso il mare le acque di pioggia defluite dalle colline e dalle pianure, significa progettare una difesa dalle acque per l’intero bacino idrografico andando oltre i confini regionali o l’area territoriale interessata. Decidere di alzare un argine rinforzandolo con cemento per difendere una città che sta a monte, aumenta la velocità di scorrimento del fiume ed espone a pericolose piene chi vive più a valle. Insomma il piano di rinascita e difesa dalle acque deve avere dimensione di bacino, come già previsto dalla legge 183 che affida all’autorità di bacino che riunisce tutti i centri decisori che operano sull’intero bacino idrografico.

Chi dice che aprire il confronto su questo sarebbe una perdita di tempo e proprio per questo lo elude, deve sapere che espone quei territori a rischi molto alti perché eventi simili possono ripetersi. Allora anziché dividersi su chi debba essere il commissario si lotti per rendere protagonisti gli amministratori locali raccolti nelle autorità di bacino, le forze sociali, dai sindacati alle associazioni ambientaliste e del volontariato, per un confronto partecipato e che da questo confronto esca un piano di bacino.

Infine un ultimo spunto di riflessione per chiarire cosa si intende quando si parla di un piano di difesa da alluvioni e frane. Si tratta di programmare una diversa, una più adeguata, gestione dei territori bloccando il consumo di suolo, riducendo la sua impermeabilizzazione, rinaturando i versanti, piantano alberi per ricreare boschi sulle colline. Non si può certo pensare di difendersi alzando ancor di più gli argini, cementificandoli, costruendo vasche di laminazione, dighe, sbarramenti. Per ora non c’è nessuna volontà di confronto e sembra già deciso che si punta a ricostruire il tutto come era prima. Sarebbe un’occasione persa per fare della lotta al cambiamento climatico una priorità programmatica, e perderla non vuol dire solo che la tragedia è destinata a ripetersi, lì o altrove, ma sarebbe proprio una rinuncia a fare del bel paese l’impulso di una vera transizione economica europea. Non resta che chiedersi in quale girone infernale sia sprofondata la coscienza civile di questa classe dirigente che nega le risorse alla prevenzione e alla tutela della sicurezza collettiva per dedicarle invece alla costruzione del ponte sullo stretto.

* in homepage foto di Jonathan kemper su Unsplash