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Foto Sateriale recentedi Gaetano Sateriale, coordinatore CERS2030 e Ferrara 2030 e componente del Comitato Scientifico dell'Ass. Nuove Ri-Generazioni

L’Alleanza per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS) ci ha ormai abituato da anni ai suoi puntualissimi rapporti sulla distanza che intercorre ancora tra gli obbiettivi Agenda Onu 2030 e la realtà italiana: a cogliere i deboli progressi, i ritardi e le incongruenze (croniche), le buone intenzioni dichiarate ma non praticate. Anche nel recente “Position Paper” sul Goal 11 dal titolo “Governo del territorio, rigenerazione urbana e politiche abitative per lo sviluppo sostenibile” esce un quadro completo e preoccupante dei provvedimenti amministrativi e legislativi mai applicati a diversi livelli istituzionali: è il caso, ci dice ASviS, di una mancata legge nazionale sui principi di governo del territorio, o della mancata costituzione delle “Agenzie sociali di quartiere”.

Anche Istat, nel suo recente “Rapporto SDGs 2023” misura le tendenze della post pandemia sul disagio abitativo (maggiore nel Mezzogiorno), sull’aumentato uso di mezzi pubblici di trasporto nei Comuni capoluogo (specie nel Nord), sulla riduzione dei rifiuti smaltiti in discarica, sulla permanenza, anche nelle aree non urbane di elevati livelli di PM2,5.

ASviS non si limita a segnalare le distanze e inserisce nel citato Paper molte proposte, tutte condivisibili, per rendere più efficienti “il governo del territorio” e le politiche di “rigenerazione urbana” nel Paese. Ci si permetta su questo una considerazione generale.

Immagine rigenerazione urbana e analisi socialeL’impressione che si ha leggendo ASviS, Istat e altri importanti contributi sul tema è che si sovrapponga spesso il concetto di “rigenerazione urbana” a quello di una rinnovata politica di riqualificazione “urbanistica” delle città e dei territori soprattutto in un percorso di maggiore sostenibilità in materia ambientale, energetica, climatica. Questo è un approccio indubbiamente necessario e urgente (oltre che coerente con l’Agenda Onu 2030), tuttavia, a ben guardare, nel Goal 11 sulle città sostenibili c’è ben altro: si parla di trasporti, di sicurezza, di persone con invalidità, di anziani, donne e bambini, di partecipazione, integrazione, di calamità, di spazi verdi pubblici inclusivi e accessibili, di legami da rafforzare tra le aree urbane, periurbane e rurali e molto altro.

Non è quindi solo un problema di incoerenza e inefficienza del modello istituzionale amministrativo italiano quello che non fa avanzare con forza il Goal11 sulle città sostenibili, quanto forse un approccio datato rispetto alla complessità del tema. La nostra idea è che sia necessario definire un nuovo paradigma delle politiche di rigenerazione delle città e del territorio che rompa la logica e il sentiero decisionale usato fin dal dopoguerra. Un percorso che parte dai bisogni esclusivamente abitativi e consegna la programmazione edilizia (con qualche rara eccezione) alle imprese del settore, in cambio di oneri di urbanizzazione che hanno alimentato i bilanci dei Comuni, producendo continua occupazione di suolo pubblico, edificazione secondo modelli non legati ai bisogni sociali, quartieri senza servizi, periferie degradate, ecc. Fino alle tendenze degli ultimi anni in cui si registrano contemporaneamente in molte città e aree extraurbane persone in cerca di abitazioni dignitose e case costruite ma non abitate per via dei prezzi “insostenibili” del libero mercato.

Insomma, non bastano i bonus e le riqualificazioni (energetiche, ecologiche, tecniche) pur che siano. Il nuovo paradigma deve tornare a ribaltare la sequenza logica della politica urbanistica. La rigenerazione urbana non può partire dalle costruzioni e dalle infrastrutture esistenti, deve partire dai bisogni dei cittadini per ricavarne gli indirizzi pubblici necessari a orientare e condizionare un mercato edilizio che, se lasciato a se stesso, moltiplicherà periferie e disagi come ha fatto fino a questo momento.

Cosa significa partire dai bisogni sociali? Significa partire prima di tutto dalle dinamiche demografiche e dalle fragilità di chi abita le città, le periferie e le aree extraurbane: i vecchi sempre più numerosi, i bambini spesso privi di scuole pubbliche, le donne che suppliscono la carenza dei servizi, i “non cittadini” di recente immigrazione. Stiamo parlando di un necessario ridisegno del rapporto tra persone, infrastrutture e servizi in una logica di prossimità e di autosufficienza di quartiere, a partire dai servizi essenziali (sanità, sicurezza, trasporto, relazione, aree pedonali, aree giochi, spazi verdi, e anche forma dell’abitare, certo), esattamente come descritto nei target del Goal 11. Dalla garanzia che quei servizi siano diffusi e fruibili deve derivare la programmazione urbanistica e non più dall’espansione del costruito (in forma condoiminiale o di villette a schiera) come vorrebbero le imprese edili.

Questo è quanto l’Associazione Nuove Ri-Generazioni ha chiamato lo sviluppo sostenibile dei “2 Welfare”: quello delle persone e quello del territorio. Non sono tematiche da gestire a partire dalle emergenze (come sembra preferire la politica contemporanea) ma da una “manutenzione” programmata pluriennale. A questo dovrebbero servire le risorse del PNRR e non a mille progetti sparsi.

È realistico questo nuovo paradigma? È possibile che venga utilizzato? Qui è utile ricordare il Goal16, là dove parla della necessità di “garantire un processo decisionale responsabile, aperto a tutti, partecipativo e rappresentativo a tutti i livelli e il Goal 17 che richiede maggiore “coerenza politica istituzionale”. In conclusione, perché siano efficaci gli indirizzi dello sviluppo sostenibile, ai termini “ambientalmente”, “socialmente”, “economicamente” e “istituzionalmente” va aggiunto anche un “politicamente sostenibile”, senza del quale difficile immaginare che un Paese anche avanzato e sensibile come il nostro faccia rilevanti passi verso gli obiettivi 2030.