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disegno womendi Serena Moriondo

Ho ascoltato uomini (per fortuna pochi) anche di sinistra, anche del sindacato, sostenere (vantandosi) che non avrebbero accettato di utilizzre un linguaggio che rispettasse la distinzione di genere perchè inutile. E ho visto donne, arrivate (magari con qualche fatica) in posti di direzione, sostenere che, in fondo, non è così importante che tale principio sia rispettato, almeno nel linguaggio e, altre, addirittura negarlo come ha fatto recentemente Giorgia Meloni facendosi chiamare "il Signor Presidente del Consiglio". 

Tutti quanti poi, abbiamo potuto constatare l'arretratezza del Senato quando, il 27 luglio scorso, con un'altra donna del centrodestra al vertice dell'aula, ha bocciato l'emendamento che prevedeva di introdurre nel Regolamento "l'utilizzo di un linguaggio inclusivo". E come non ricordare che, più recentemente, il Governo ha modificato la nuova versione del codice degli appalti non includendo più alcun riferimento alla certificazione per la parità di genere (PdR 125). E la premialità – relativa ad una più generica “parità di genere” – diventare, per le imprese, facoltativa.

Ad ammettere, anche nel linguaggio giuridico e in quello utilizzato dalle istituzioni pubbliche, il genere femminile per titoli professionali riferiti alle donne è riuscita però l’Accademia della Crusca anche se, è necessario sottolinearlo, non ha alcun potere di indirizzo politico, diversamente dall’Académie Française e dalla Real Academia Española, che hanno un ruolo ben diverso sul piano istituzionale.

All'Accademia si è rivolto direttamente il Comitato pari opportunità del consiglio direttivo della Corte di Cassazione. E lo ha fatto a partire da una premessa significativa: anche se una "simile concezione della lingua non è universalmente condivisa", chi sostiene "la volontà di rompere qualunque eventuale asimmetria che distingua il riferimento ai due generi, maschile e femminile, intesa come discriminazione", ritiene che l’operazione sia in grado di "sanare un’ingiustizia storica e ripulire la lingua dai residui patriarcali di cui sarebbe ancora incrostata", e abbia anche "una finalità educativa rispetto alla popolazione presente e futura, perché la lingua condizionerebbe la percezione della realtà, cioè il modo con cui le persone colgono e interpretano il mondo".

Così, dopo approfondita discussione, la Crusca ha stabilito che, anche nella scrittura di atti giudiziari, si potranno ora usare "senza esitazioni" termini come la pubblica ministera, la presidente, la giudice, la questora, la magistrata.

È verissimo - scrive la Crusca - "come diceva Nanni Moretti in un suo film, che “le parole sono importanti” (ma lo sono anche la grafia, la fonetica, la morfologia, la sintassi) e denunciano spesso atteggiamenti sessisti o discriminatori, sia sul piano storico (per come le lingue si sono andate costituendo), sia sul piano individuale. (..) È senz’altro giusto, e anzi lodevole, quando parliamo o scriviamo, prestare attenzione alle scelte linguistiche relative al genere, evitando ogni forma di sessismo linguistico" anche se non si deve cercare o pretendere di forzare la lingua – almeno nei suoi usi istituzionali, quelli propri dello standard che si insegna e si apprende a scuola.

E aggiunge: "l’italiano ha due generi grammaticali, il maschile e il femminile, ma non il neutro, così come, nella categoria grammaticale del numero, distingue il singolare dal plurale, ma non ha il duale, presente in altre lingue, tra cui il greco antico. Dobbiamo serenamente prenderne atto, consci del fatto che sesso biologico e identità di genere sono cose diverse dal genere grammaticale. Forse, un uso consapevole del maschile plurale come genere grammaticale non marcato, e non come prevaricazione del maschile inteso come sesso biologico (come finora è stato interpretato, e non certo ingiustificatamente), potrebbe risolvere molti problemi, e non soltanto sul piano linguistico. Ma alle parole andrebbero poi accompagnati i fatti." Esclude poi "l’uso di segni grafici che non abbiano una corrispondenza nel parlato", come "l’asterisco al posto delle desinenze dotate di valore morfologico (car* amic*, tutt*)" w anche lo schwa, "l’ǝ dell’alfabeto fonetico internazionale che rappresenta la vocale centrale propria di molte lingue, non presente in italiano".

Diverso è ancora il caso di chi si considera "gender fluid, cioè, per usare la definizione dello Zingarelli 2022 (che include questa locuzione aggettivale s.v. gender, molto ampliata rispetto allo Zingarelli 2021), di persona che rifiuta di identificarsi stabilmente con il genere maschile e femminile (comp. con fluid ‘mutevole’)”. In questo caso l'Accademia della Crusca ha spiegato che "l’italiano – anche se non ha un pronome “neutro” e non consente neppure l’uso di loro in corrispondenza di they/them dell’inglese (lingua in cui l’accordo ha un peso molto meno rilevante rispetto all’italiano e dove comunque l’uso di they al singolare per persone di cui si ignora il sesso costituiva una possibilità già prevista dal sistema, in quanto documentata da secoli) – offre tuttavia il modo di non precisare il genere della persona con cui o di cui si sta parlando. L’unica avvertenza sarebbe quella di evitare articoli, aggettivi della I classe, participi passati, ecc., scelta che peraltro (come ben sanno coloro che hanno affrontato la tematica del sessismo linguistico) è certamente onerosa. In ogni caso, tanto il pronome io quanto l’allocutivo tu (..) non specificano nessun genere. Analogamente, i pronomi di terza persona lui e lei in funzione di soggetto possono essere omessi (in italiano non è obbligatoria la loro espressione, a differenza dell’inglese e del francese) oppure sostituiti da nomi e cognomi (...) Insomma, il sistema della lingua può sempre offrire alternative perfettamente grammaticali a chi intende evitare l’uso di determinate forme ed è disposto a qualche dispendio lessicale o a usare qualche astratto in più pur di rispettare le aspettative di persone che si considerano non binarie."

Le polemiche contro l’uso sessista della lingua - ci ricorda la Crusca - hanno una storia più che trentennale.

Nel 1987 uscì un libro di Alma Sabatini dal titolo "Il sessismo nella lingua italiana", risultato di un’indagine sulla terminologia specifica ricorrente nei libri di testo e nei media. La ricerca metteva in risalto la prevalenza “storica” nella lingua italiana del genere maschile, che si manifesta in nomi usati con doppia valenza, ritenuti validi per il maschile e per il femminile; tale prevalenza di fatto annulla in moltissimi casi la presenza del soggetto femminile. Quel libro - scriveva Tina Anselmi in un documento successivo della Commissione parità e pari opportunità tra uomo e donna del 1993 - "mise in luce, tra l'altro, il legame tra le discriminazioni culturali e discrimazioni semantiche".

Nel testo si legge "Alla fine del lavoro noi ricercatrici troviamo confermate le ipotesi di partenza, sia per quanto riguarda l’atteggiamento generale del linguaggio della stampa verso le donne, sia per la stessa lingua italiana, i cui particolari elementi grammaticali e semantici sono spesso portatori di discriminazione sessista. Le nostre ipotesi, presentate nella Introduzione e puntualizzate nel commento alle schede rilevate e prescelte, sono ormai divenute certezze con la consistenza della realtà. Ma la conferma, oltre a dare soddisfazione, ci riempie di tristezza: dopo quasi ventanni di analisi femministe, di lotte di emancipazione e di liberazione che hanno indubbiamente inciso sull’assetto sociale e politico e hanno influito sulla psicologia delle persone, il linguaggio della stampa e la lingua quotidiana non si sono sfortunatamente adeguate ai cambiamenti avvenuti." E concludono: "La ricerca, l'analisi e l'elaborazione dei dati sono stati particolarmente illuminanti pe noi ricercatrici riguardo alle nostre stesse abitudini linguistiche e ai nostri residui pregiudizi che ancora si annidano nelle pieghe della lingua e della mente".

Quindi è indispensabile che le persone ancora scettiche, timide o distratte, si adoperino anche per adottare terminologie che prevedano la presenza di ambedue i generi tramite le relative distinzioni morfologiche, ovvero evitando l'utilizzo di un unico genere nell'identificazione di funzioni e ruoli, nel rispetto del principio della parità tra uomini e donne. Certo, ciò che ha specificato la Crusca non è risolutivo, ma è già un altro passo nella giusta direzione.