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FOTO GAETANO SATERIALE PRESIDENTEdi Gaetano Sateriale

Sono usciti di recente due contributi, diversi fra loro ma entrambi molto interessanti, che parlano di lavoro da un’angolazione giusta. Uno di Leonello Tronti, più economico, l’altro di Alessandro Genovesi, più sindacal-politico. Riportiamo l'intervento "Politiche del welfare e del lavoro, tra Costituzione ed economia" del prof.Tronti per facilitarne una lettura. Di seguito qualche riflessione personale sul tema.

  • “Il lavoro deve tornare al centro delle politiche”, “Bisogna ripartire dal lavoro”, “Prima il lavoro”, “Difendere il lavoro”, sono titoli che appaiono sempre più spesso sui giornali. I partiti e i Governi, anche non di sinistra, le imprese e i sindacati sembrano convergere sull’idea che di fronte alle tante crisi che ci attendono (e alle emergenze in cui già viviamo: economica, inflativa, sociale, bellica, energetica, ambientale, climatica, idrogeologica…) sia necessario fondare il baricentro di un diverso modello di sviluppo su una nuova idea di lavoro. Ma di che lavoro si sta parlando? Di quello che c’è o di quello che manca? Di quello tradizionale o di quello nuovo? Queste domande restano senza risposta esattamente come le dichiarazioni citate restano senza seguito. La sensazione è che quando le forze politiche (anche a sinistra) parlano di lavoro lo intendono come effetto, conseguenza, risultato di altre politiche: non il motore che rende praticabili le nuove scelte per uno sviluppo sostenibile.
  • Il prof Leonello Tronti richiama tra i tanti spunti due passaggi fondamentali nella storia economica e sociale soprattutto europea: la nascita del Welfare State nella Prussia fine ‘800 di Bismarck (in risposta al crescere organizzato della classe operaia, nuovo protagonista del mondo sociale e politico), e l’idea “rivoluzionaria” di Keynes di porre come obiettivo esplicito alle politiche economiche il raggiungimento della “piena occupazione”. Una piena occupazione (o disoccupazione frizionale calcolata al tasso del 3%). Già su questo punto è utile notare come la discussione “politica” di questi ultimi giorni in Italia parla di una drastica riduzione della disoccupazione che invece ancora si attesta a più del doppio di quella immaginata da Keynes come “fisiologica”.
  • Alessandro Genovesi, nel suo pezzo ("Lo Stato sociale si è ridotto ora ripartiamo dal lavoro", La Repubblica, 2 dicembre, p.15), parla dei deficit anche culturali che le organizzazioni politiche e sociali hanno accumulato negli anni del liberismo dilagante in materia di quantità e qualità dell’occupazione in Europa e in Italia. E della necessità di un grosso ripensamento (“una Bad Godesberg alla rovescia”) su questi temi, se si vuole che torni a esserci in Italia una sinistra rappresentativa non solo di se stessa e delle sue burocrazie.

Provo a fare qualche collegamento tra i due contributi citati e ricercare una sintesi possibile tra politiche micro e macro. Assumendomi per intero la responsabilità di qualche forzatura e di possibili errori. 

  • È molto giusto e ragionevole ciò che chiedono i sindacati da anni in materia di lavoro: ridurre le diseguaglianze, superare la precarietà, aumentare salari e diritti, cancellare la vergogna degli incidenti e delle morti sul lavoro, far crescere le competenze. Ma non basta: non sarà possibile ottenere miglioramenti significativi per tutti, malgrado la buona volontà e l’impegno anche contrattuale, se non si riduce l’Esercito Industriale di Riserva (come direbbe Marx) fatto di molti giovani e donne che non trovano (o non cercano) lavoro.
  • Se non cresce parallelamente la quantità di lavoro e il numero delle persone occupate si accentuerà la concorrenza interna tra quelli che hanno già un lavoro e tra gli occupati e i disoccupati: aumenteranno le attività irregolari e il numero dei contratti “pirata“ che legittimano quella concorrenza al ribasso. Il mercato del lavoro subirà una polarizzazione squilibrata tra i pochi che avranno alte retribuzioni, stabilità e riconoscimento del loro ruolo e i tanti che si sentiranno lavoratori “usa e getta” in un sistema economico che produce “lavoro di scarto”, come dice Papa Francesco. Tra quelli che governano il loro tempo di lavoro e quanti saranno obbligati ad aumentare il proprio orario di lavoro per guadagnare di più (o per mantenere il posto che hanno). E anche la tutela sindacale del lavoro potrebbe subire una polarizzazione nefasta tra calante rappresentanza dei garantiti e sempre più difficile rappresentanza dei precari.
  • La sostanza è tutta qui, ed è persino banale: bisogna raggiungere la piena occupazione vera, a partire dai giovani e dalle donne, se si vogliono ottenere più diritti e ridurre le diseguaglianze. Dar vita a un Piano del Lavoro che crei nuove imprese e nuova occupazione è il passaggio obbligato per restituire più dignità al lavoro, anche a quello già esistente e rilanciare la domanda. Altrimenti la competizione economica fra le imprese si farà unicamente ricercando il minor numero di occupati e il minor costo di produzione: l’impiego delle nuove tecnologie per ridurre il lavoro umano e non per arricchirlo.
  • Creare nuove imprese e nuovo lavoro: chi, dove, con cosa? La prima condizione è che lo Stato torni a essere un soggetto protagonista delle politiche economiche e non un ospite non gradito del mercato economico e finanziario come nel pensiero liberista. La seconda è che queste politiche possano davvero vivere a partire dai territori e non da Piani concepiti una volta per tutte a livello nazionale. La terza è che le risorse esistenti vengano ben spese in coerenza con gli obiettivi e non elargite a compensazione di ciò che lo Stato (nazionale, regionale, locale) non fa. Tagliare investimenti e distribuire benefici (“ristori”) anche a chi non paga o paga poche tasse è oltre che socialmente anche economicamente sbagliato: Keynes inorridirebbe…
  • Se si entra nella logica di uno Stato che non sostituisce il libero mercato ma ne segnala le esigenze e apre nuovi spazi con investimenti diretti, si deve ripartire dai bisogni reali del Paese. Su questo Nuove Ri-Generazioni ha da tempo sintetizzato una visione e una strada: sviluppare i 2 Welfare, quello delle persone e quello del territorio come nuove domande su cui far nascere nuove attività (accanto a quelle più tradizionali dei beni di consumo).
  • L’inurbamento, la pandemia, le dinamiche demografiche, la guerra sulle fonti di energia, chiedono di rafforzare i servizi essenziali alle persone (sanità, assistenza, scuola, abitazione, mobilità, relazione sociale, acqua-luce-gas) in una logica di prossimità, di “autosufficienza di quartiere” (se non della città dei 15 minuti che nelle nostre metropoli rischia di essere un’utopia). Smantellare i servizi pubblici nella speranza che le dinamiche di mercato tra imprese e consumatori determinino automaticamente un equilibrio tra domanda e offerta è una panzana sia teorica che pratica. Le dinamiche di mercato allargano (da sempre) le differenze e le diseguaglianze anziché restringerle. L’aveva capito Bismark e fatica a capirlo la sinistra?
  • E poi il Welfare (il benessere) del territorio. Qui la vicenda è paradossale, da molti anni. Il cambiamento climatico e la speculazione edilizia (gli abusi) hanno solo amplificato il fenomeno, non lo hanno generato. Da decenni non si fa la manutenzione ordinaria dei territori (urbani, periferici, extraurbani). Ovvio che in queste condizioni si moltiplica il rischio di frane, di esondazione, di crollo delle infrastrutture, ecc. Tutto ciò che siamo ormai abituati a registrare stagionalmente, sempre con le stesse sorprese, lo stesso scandalo, le dichiarazioni vuote. La verità è che la politica preferisce la logica dell’emergenza a quella della prevenzione. La partecipazione al dolore delle comunità colpite e le promesse pagano di più in termini di consenso a breve che non un lungo e programmato lavoro di manutenzione preventiva. Ma, anche in questo caso i “ristori” sono più costosi dei lavori di manutenzione e soprattutto non risolvono la questione.
  • I 2 Welfare, se definiti in programmi pluriennali di intervento e di spesa possono creare nuove imprese e nuovo lavoro (per gli italiani e gli immigrati) e (come da moltiplicatore keynesiano) far crescere in maniera non congiunturale e non legata alle fluttuazioni dei mercati esteri la domanda e l’economia del Paese.
  • In quale direzione questo nuovo modello di sviluppo oltre a quello della riduzione delle diseguaglianze? Anche qui non c’è molto da inventare: è già tutto scritto (e condiviso). C’è solo la necessità di tradurre in “piattaforme operative” le indicazioni dell’Agenda Onu per lo sviluppo sostenibile 2030 dove, benessere sociale, ambientale ed economico sono strettamente legati fra loro. Come del resto nelle encicliche di Papa Francesco. Pensare di modificare il sistema di sviluppo che conosciamo tirando solo uno dei 3 fili indicati è sbagliato e controproducente. Né dal solo lato dell’emergenza ambientale e climatica, né da quello dell’emergenza sociale o economica si può ricostituire un sistema equo e sostenibile di creazione e redistribuzione di nuova ricchezza. La crisi sistemica pretende politiche sistemiche di riconversione. La transizione (ecologica, energetica, ecc.) non è né spontanea né automatica.
  • Se la politica finge di non aver colto (o davvero non ha ancora compreso) questi nessi strategici (e si limita al governo del quotidiano) chi può innescare la riconversione? I vincoli provenienti dall’Unione Europea? O, in mancanza di una politica con i piedi per terra, il sistema nazionale di rappresentanza del lavoro e delle imprese? Questa una possibilità almeno teorica. Sarebbe bene che sull’applicazione del PNRR le parti sociali aprissero una battaglia nelle Regioni e nei territori, piuttosto che non limitarsi a uno (sporadico) intervento sulle politiche nazionali. E sarebbe auspicabile che sindacati e imprese definissero un Patto per la transizione sostenibile. È poco probabile che accada? Spes ultima dea.

 Link: Politiche del welfare e del lavoro, tra Costituzione ed economia, L.Tronti, 2022

* Ringraziamo il prof. Leonello Tronti per aver concesso all'Associazione Nuove Ri-Generazioni la pubblicazione del suo intervento “Politiche del welfare e del lavoro, tra Costituzione ed economia” del 30 novembre u.s., svolto in occasione dell’iniziativa “A 60 anni dal Rapporto Beveridge (20 novembre 1942)” organizzata dal Cnel e dall’Osservatorio Costituzionale della Fondazione Bruno Buozzi.

Per la Redazione - Serena Moriondo