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città15minuti 1Di Alessandro Genovesi – Segretario Generale FILLEA CGIL

La Pandemia ha rappresentato e rappresenta molte cose.

Prima di tutto il “disvelamento” delle fragilità di un modello di sviluppo basato su ingiustizie crescenti: abbiamo riscoperto l’importanza del “luogo casa”, della sanità, della scuola, dei trasporti pubblici e della qualità delle infrastrutture intermodali – strade, ferrovie, metropolitane, tranvie, piste ciclabili. Direi l’importanza dei luoghi della “socialità” più in generale, della qualità tanto degli spazi privati che della vivibilità del quartiere. E abbiamo toccato con mano tutti, un po' di più, le differenze “di classe” nel possedere o no una casa ben organizzata, accedere a determinati servizi o meno, ecc.

La Pandemia è stata anche – al contempo – un fattore di accelerazione significativa di modelli produttivi, di nuove forme di interazione (e isolamento), di “scomposizione” del ciclo produttivo, di accesso ai servizi e al consumo, attraverso la ulteriore “digitalizzazione” sia dell’offerta (il lavoro appunto) che della domanda.

Per assurdo cioè, la pandemia, il relativo isolamento in uno “spazio delimitato” (casa e quartiere), la remotizzazione del lavoro pubblico e privato (smart working), i nuovi stili di consumo (esplosione dell’e-commerce e al contempo la riscoperta del “negozietto sotto casa”) hanno rimesso al centro la qualità degli spazi fisici (privati e pubblici) che sono sempre anche spazi sociali e quindi della stessa pianificazione urbanista e della distribuzione, più “di prossimità”, dei servizi (da quelli da domiciliare a quelli da avere “a portato di mano”).

Tutti elementi che – anche quando sarà passata l’onda pandemica – ci consegneranno percezioni di massa, domande, bisogni ed opportunità assai diverse “dal prima”.

Oggi si sente più di ieri l’esigenza di una riqualificazione/ammodernamento/cambio di casa, secondo coordinate “nuove o sentite ora come più importanti” come la dimensione (serve più spazio per lavorare da casa), la connettività (ambiente connesso/fibra/wi-fi), la luminosità e areazione (balcone, terrazzo, giardino privato o condominiale), la salubrità, il costo energetico.

Così come si sentirà più di prima l’esigenza (e al contempo si potrà percepire anche la grande opportunità) di ripensare gli spazi fisici e sociali in nome di una “prossimità” delle funzioni urbane che pone il tema della rigenerazione dentro una visione ben più complessa e articolata.

Oltre il mero recupero del singolo manufatto o dell’aggregazione di manufatti.

Potrà (dovrà) “esplodere” l’idea di rigenerazione come ripensamento complessivo di uno spazio che è collettivo, sociale e quindi anche economico e politico.

Insomma: dalla Pandemia esce rafforzata la visione di una rigenerazione urbana per come essa è sempre state elaborata, oltre il mero “uso alternativo di uno spazio già occupato e cementificato”, dalla Fillea Cgil prima, NuriGe oggi.

Per cui da tempo proviamo a declinare (e chiediamo di declinare) le varie politiche di settore (dal superbonus del 110% all’abbattimento delle barriere architettoniche, dai progetti del Fondo Qualità dell’Abitare ai vari interventi urbanistici), il ruolo degli enti bilaterali sul territorio (Casse Edili, Scuole, CPT), la stessa azione contrattuale e vertenziale degli edili, dentro una visione appunto “sistemica e pluridimensionale”.

“La città dei 15 minuti” è – in sostanza – un possibile progetto politico e sindacale a tutto tondo, rovesciamento totale del concetto di area interna (è area interna quella comunità distante più di 20 minuti dai servizi essenziale, non per forza – quindi – un paesino dell’entro terra…). 

“La città dei 15 minuti” è una città policentrica per cui entro un quarto d’ora, a piedi o in bicicletta da casa – e aggiungo, da romano e un po' provocatoriamente, se fosse anche con la metro o la tranvia – si hanno tutti i servizi fondamentali, di assistenza, consumo, socialità, lavoro. Un “mainstream” come direbbero i jazzisti, in quanto proposta che ha in sé una visione più ampia di sostenibilità ambientale, di auto produzione/consumi zero e, financo, di nuove infrastrutture e di nuova logistica per merci e persone.

Una declinazione diversa dei binomi “storici”, tanto cari a noi di sinistra, di “lavoro-natura”, “creazione di nuova occupazione-benessere collettivo”, “intervento economico-maggiore giustizia sociale”.

Del resto quando Carlos Moreno, docente alla Sorbona, lanciò il concetto di “città dei 15 minuti” alla base del suo pensiero vi era prima di tutto l’idea di uno sviluppo di per sé sostenibile e neo  umanista, per cui – uso le parole di Moreno - “è  tempo di passare dalla pianificazione urbanistica alla pianificazione della vita urbana (…), una visione policentrica basata su quattro componenti – vicinanza, diversità, densità e ubiquità – per offrire a breve distanza le sei funzioni sociali urbane essenziali: vivere, lavorare, fornire, curare, imparare e godere”. 

Qualcosa in più – mi si permetta di scrivere da profano – del semplice “ritorno alla vita dei quartieri”, qualcosa in più “del riconquistare aree pubbliche per mitigare l’effetto isole di calore” o della riduzione del fenomeno del pendolarismo di massa…

Intendiamoci: tutti aspetti, quelli sovra citati, già in sé positivi e di grande portata. Si pensi solo al “tempo liberato” per milioni di lavoratori e cittadini – anzi diciamocela tutta, per milioni di lavoratrici e cittadine -, alla migliore conciliazione tempi di lavoro-tempi di vita, all’impatto sulla salute delle persone per “meno stress e meno traffico”.

La sfida vera è però ancora più ambiziosa: la costruzione di “comunità ibride, sostenibili, materiali e digitali” (l’altra faccia del ripensamento degli spazi fisici sono la digitalizzazione/connettività dell’ambiente sociale e la mobilità integrata), per cui i confini fisici vengono ampliati dalle tecnologie e dalla connessione fisica resa più facile  dall’intermodalità (più su ferro che su gomma) e da spostamenti attraverso l’uso e non il possesso dei vettori (con accesso all’uso distribuito sul territorio).

Tutto l’opposto di una “chiusura”, di un ritorno al borgo medievale, anzi… un localismo cosmopolita, una comunità aperta all’integrazione e allo scambio.

Proposta sistemica, tanto concreta quanto complessa, che assume i bisogni (ecco il fulcro strategico) come elemento di partenza della programmazione economica, attorno a cui, costruire “fisicamente e socialmente” l’ambiente urbano, gli stili di vita e consumo, nuove quote di occupazione e quindi occasioni di integrazione ed azione collettiva.

E che già tutto ciò sia terreno di iniziativa politica e di pratica amministrativa, lo dimostrano il caso più noto del Comune di Parigi (amministrato da Anne Hidalgo che su questo ha vinto le elezioni) ma anche quelli meno noti di Sydney, Portland, per non dire di molte realtà olandesi e su cui, per esempio, sembra orientarsi lo stesso comune di Milano (anche se, per onestà con una torsione più legata alla qualificazione dei “satelliti urbani periferici” che non secondo una visione policentrica della metropoli; un po' come a Barcellona con i casi dei “superblock”, cioè di quartieri prevalentemente pedonali che rappresentano piccole comunità all’interno della città unite e interconnesse agli altri blocchi urbani da vie di collegamento estere).

Una sfida quindi complessa, ma praticabile che chiama in causa la possibile creazione di occupazione per i nostri settori (dai nuovi materiali, alle nuove tecniche, ai nuovi cantieri), la trasformazione dell’industria delle costruzioni, del modello d’impresa, l’esigenza di riconvertire professionalità, crearne di nuove, ecc., ma che muta lo stesso rapporto tra produzione-intervento fisico-pianificazione urbanistica-pianificazione sociale- sostenibilità. E che necessita di un protagonismo dei portatori di bisogni diffusi, del movimento sindacale, delle comunità, delle rappresentanze politiche, inedito ed in parte “più ibrido”.

Il PNRR può, anche nel contesto del nuovo Governo Draghi, essere uno degli strumenti per accompagnare tale “rivoluzione”, accanto ad una nuova legge quadro sulla “urbanistica che rigenera” in quanto questa visione di rigenerazione è la più coerente con gli obiettivi europei ed è generatrice di possibile occupazione in quantità significative.

Occupazione non solo per l’oggi, ma anche per il domani (creazione di lavoro sociale + redistribuzione di lavoro di manutenzione, come risposta strutturale alla distruzione di quote occupazionali a seguito di digitalizzazione e automazione che “auto impara”).

Ovviamente però i soldi, di per sé, non bastano e non basteranno mai se non vi è quella programmazione, quella partecipazione, quella condivisione che esprima anche una “visione” di trasformazione dei rapporti sociali e quindi dell’attuale distribuzione di ricchezza, occasioni, accessi, potere.

Ecco io penso che vi è molto da fare e che tante sono oggi le “occasioni sotto il cielo”.