Foto Genovesi Di Alessandro Genovesi - Segretario Generale Fillea Cgil

E’ ormai diffusa la consapevolezza che la Pandemia ha rappresentato e rappresenta sia il disvelamento delle fragilità (sanitarie, ambientali, economiche, produttive, sociali) del nostro modello di sviluppo sia un potente fattore di accelerazione.

In particolare la Pandemia ha rappresentato: un’accelerazione nella ulteriore digitalizzazione dei processi produttivi e comunicativi, influenzando tanto la produzione che la domanda; un incentivo alla remotizzazione e domiciliazione di molte fasi lavorative (smart working) rompendo gerarchie, senso collettivo, identità; un incentivo evidente a tenere insieme digitalizzazione, capacità di calcolo (dalla progettazione al ciclo di vita dei beni e servizi) e riconversione/transizione ecologica, soprattutto all’interno di imprese e sistemi più “maturi”.

Sono emersi nuovi bisogni (professionali, relazionali, di conciliazione tra tempi di vita e tempo di lavoro, di diritti alla disconnessione e privacy, ecc.), si sono enfatizzate vecchie questioni (dalla qualità dell’abitazione, alla prossimità o meno dei servizi), indicandoci potenzialità e possibili campi di azione, e mettendo in luce due aspetti fondamentali che chiamano in causa direttamente il Sindacato Confederale, agente contrattuale e politico al contempo, per definizione.

Il primo aspetto rimanda all’esigenza di un sistema di regole, poteri e contro poteri, diritti e doveri più avanzato, obbligandoci sia a modificare l’assetto e i contenuti della contrattazione collettiva (nazionale e di secondo livello) sia a rivendicare un nuovo diritto del lavoro (a partire dagli ammortizzatori sociali, dall’incentivo strutturale alla riduzione/redistribuzione di orario alla formazione e ai suoi diversi canali e agenzie, ecc.).

Con la consapevolezza che ogni “modello regolatorio” dovrà per definizione essere “flessibile e adattivo” nel tempo (più rapido) e nello spazio (con uno sguardo, come minimo alle tendenze ed interazioni dentro l’Unione Europea).

Quindi strutturalmente basato su “regole di cornice”, “riconoscimento esplicito di funzioni”, con un di più di partecipazione e normazione costante da parte dei soggetti direttamente interessati (imprese, lavoratori, organizzazioni sociali, ecc.).

La seconda novità rimanda invece al ruolo dello Stato Promotore (quindi non meramente “regolatore”) cioè  ad uno Stato attivo direttamente nella produzione di beni e servizi (non solo sociali) o attraverso la leva finanziaria/di partenariato societario, in tutti quegli ambiti in cui il mercato non è efficiente (per scarsa domanda, per scarsi profitti, perché necessita di investimenti “particolarmente pazienti”) o non è giusto che vi sia (welfare, fattori abilitanti come infrastrutture sociali, risorse a favore dei corpi intermedi come scelta di un modello democratico e pluralista che assume la libertà come valore politico e sociale, ecc.).

Più in generale tali tendenze chiamano in causa la “res pubblica” cioè la politica e la rappresentanza: sia quella sociale e sindacale sia quella elettorale e istituzionale, definendo un perimetro di bisogni, soggetti sociali, aspirazioni, conflitti per molti versi inediti e sulle quali può inverarsi il progetto politico di chi punta al cambiamento del modello di sviluppo secondo principi di maggiore giustizia sociale, partecipazione civile, democrazia economica, protagonismo del mondo del lavoro nella definizione del mondo che verrà.

Organizzando forze, interessi, culture.

Per il sindacato, ma soprattutto per il Paese diviene allora fondamentale “ricomporre”. Ricomporre il lavoro, destrutturato da innovazioni tecnologiche e precarietà. Ricomporre i bisogni, in un’ottica amplia, contro i mille corporativismi e separatismi, ma secondo quelli che chiamavano una volta gli “interessi generali”. Ricomporre le città, i tessuti urbani, il territorio.

E allora le priorità sociali ed economiche diventano sempre più priorità “democratiche” perché la ricomposizione può avvenire solo dentro una visione di sistema che liberi la partecipazione.

Si ricompone il ciclo produttivo con un di più di partecipazione dei lavoratori nelle scelte aziendali (attuazione dell’articolo 46 della Costituzione, che vuol dire più che azionariato ai dipendenti, comitati di vigilanza sul modello tedesco), con una serrata lotta al dumping contrattuale (attuazione art. 39 Costituzione e legge per dare validità erga omnes ai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni rappresentative), con un maggior ruolo di tutele che si auto organizzano – anche in forme mutualistiche – nel mercato del lavoro (quindi non solo tutele sul posto di lavoro, ma anche formazione, collocamento, ecc. sulla scorta per esempio di esempi di sindacato nordico), con una maggiore capacità di avviare vertenza dal basso dove tenere insieme lavoro, occupazione, welfare (tutto il tema della rigenerazione urbana, della città dei 15 minuti, dei Piani locali del lavoro che mettano al centro cura della persona e cura del territorio, altro non sono che forme evolute di “contrattazione sociale”).

Un sindacato che prova a fare questo è quindi, per definizione, un sindacato che vive di più contrattazione collettiva, di più vertenze e meno assistenza, organizzando bisogni e stringendo alleanze. E’ - insomma - non una burocrazia ma un “agitatore sociale”, al passo con i tempi e con i cambiamenti. Questo è il senso del sindacato “di strada” per me.

Secondo il sempre valido adagio sindacale per cui “i cambiamenti o si governano o si subiscono”. E’ con questa riflessione, che tanto parla anche al lavoro dell’associazione Nuove Ri-Generazione, che auguro a tutte e tutti, buona festa dei lavoratori. Buon Primo Maggio.